Ogni anno tutti gli appassionati viaggiatori si sentono rivolgere la stessa, identica, fastidiosa domanda: “quest’anno a Capodanno dove vai?”
Una volta, la mia risposta è stata “in Tunisia”
Immancabile e inesorabile è stata la reazione “In Tunisia!? D’inverno!? A far che?”
“Vado al Festival del Sahara”
E a dispetto delle espressioni perplesse di amici e conoscenti, sono partita per questo luogo così vicino ma al contempo così lontano.
A Tunisi, dopo una lunga traversata in mare, alla dogana si incontra una lunga fila di vecchie auto e piccoli furgoni che, stracolmi fino all’inverosimile di ogni genere di mercanzia, vengono minuziosamente controllati dalla Polizia di frontiera.
Finalmente entrati in terra tunisina, una lunga striscia di asfalto conduce a Douz; lungo il tragitto ci si ferma presso piccoli villaggi di pescatori, sul ciglio della strada si susseguono venditori improvvisati di benzina con le loro taniche verdi e blu, si oltrepassa il villaggio berbero di Matmata, si osservano i paesaggi che hanno fatto da sfondo al film “Guerre stellari”, si attraversa il lago salato Chot el Jerid con il suo magico luccicore e i venditori di “rose del deserto” e, in fondo, si scorge il deserto, le dune e un piccolo villaggio.
Si tratta di Douz: case, un baretto, il mercato, la moschea, il tutto inondato dalla sabbia gialla del deserto.
Qui, in occasione del Festival del Sahara, convergono le tribù del deserto, provenienti dalla Tunisia, dalla Libia, dall’Algeria e dall’Egitto; piantano le loro tende ai margini, proprio sul principiare del deserto e restano un po’ in disparte rispetto all’animata vita dell’oasi.
Qui, finalmente si scorge uno spaccato della semplice vita tunisina.
Qui nessuno vuol farci da guida, farci visitare fabbriche di ceramica, venderci ambra, essenze e quant’altro; abbiamo smesso le vesti di “polli da spennare” per assumere quelle di ospiti.
Qui ci sentiamo benevolmente osservati, quasi coccolati.
Tutti ci guardano, con curiosità ma di soppiatto, e ci sorridono, gli occhi luccicanti, fieri della vita dura che conducono alle porte del deserto, con quella sottile e impalpabile polvere gialla che si infila ovunque e che man mano avanza cercando di sotterrare tutto ciò che incontra sul suo cammino.
Il giorno successivo ci rechiamo al “cammellodromo”, una tribuna di cemento costruita sulla sabbia con uno spettacolare panorama sulle dune su cui si stagliano un gruppo di dromedari, una tenda berbera e una gigantografia di Ben Ali.
All’ingresso c’è una lunga coda di persone dagli occhi scuri come la pece che parlano e gesticolano incessantemente.
Gli Europei presenti, una decina al massimo, spiccano come fossero ciliegie sulla neve; tutti ci notano e ci fanno segno di passare oltre, quasi a dire “non sia mai che un ospite debba aspettare”.
Così ci si ritrova tutti insieme in prima fila a godere lo spettacolo del deserto e delle sue antiche tradizioni.
Sulla pista di sabbia, si susseguono corse di cammelli, scene di matrimoni tradizionali, giostre di cavalli, antichi balli e canti, si assiste ad una partita di uno strano sport che assomiglia al polo solo che qui i giocatori sono vestiti di lunghe tuniche color celeste, la testa bardata di turbanti e la palla e’ fatta di stracci.
I cavalieri, dall’aspetto aggressivo, irradiano mistero e fascino, lasciandoci a bocca aperta per la sicurezza e la maestria con cui guidano i loro cavalli in una giostra spettacolare.
Il tempo fugge via in fretta e ci lascia la struggente sensazione di essere riusciti a captare, per un momento, un mondo antico e sconosciuto, vicino ma anche così lontano.